lunedì 18 marzo 2013

Quell'ultimo sorso di assenzio


Manet, Olympia

2 anni dopo, in ritardo come sempre. Ma io sono fatta così.

QUELL'ULTIMO SORSO DI ASSENZIO

Era un giovedì sera, una di quelle sere che sembrano prospettarsi come tante altre; il bicchiere colmo di  assenzio era lì ad attendermi, come di consueto, sulla rosea tovaglia del Caffè Nouvelle-Athens e la mia mano, inevitabile vittima del colore, sfogliava pigramente le pagine de “Le Charivari”. Riecheggiava nell’ambiente un’intensa fragranza di tabacco puntellata dal forte aroma di caffè appena macinato che annullava l’odore dei pigmenti ad olio di cui avevo pregne le narici. Tutto intorno a me uno snodarsi di personaggi dal bell’aspetto e dai visi noti rompevano il silenzio del locale. Era questo che chiamavo divertimento prima di averla conosciuta, era questo che facevamo tutti noi artisti, quando all’imbrunire del sole ci era impossibile continuare a dipingere. Dalle finestre scorgevo un cielo bigio che con forti pennellate decise ingrigiva i colori sgargianti di Pigalle e prometteva pioggia. ‹‹ Un ultimo sorso! ›› -mi dissi- ‹‹ Un ultimo sorso e si torna a casa ››. Fu proprio mentre quell’ultimo sorso di assenzio scendeva lungo la mia gola, in quel monotono giovedì sera che la incontrai. La sua figura si materializzò all’improvviso sul fondo del bicchiere che tenevo ancora sollevato in procinto di bere. Un silenzio statuario accompagnò la sua entrata. Durò poco, pochissimi attimi forse, e tutti ritornarono alle proprie occupazioni. La sua chioma risplendeva alla luce della stanza di un castano carico di riflessi che mi ricordavano il colore lucente del rame ed era raccolta ordinatamente da un lato ed impreziosita, dall’altro, con un tenue fiocco rosa. Il suo incarnato ambrato era avvolto in una veste purpurea cinta in vita che le si dispiegava lenta sui fianchi delicati.  La donna, ora lontana dall’uscio, che nel frattempo aveva preso posto nel tavolo di fronte al mio, si chiamava Charlene Dùbois ed aveva da tempo attirato su di sé  l’attenzione dei frequentatori del Caffè.  Era conosciuta da tutti come Madame Olympia; non seppi mai da dove derivasse questo suo soprannome, molti mormoravano sul fatto che le fosse stato attribuito da qualche scrittore o da qualche artista con cui aveva diviso il suo letto. La sua era una bellezza atipica, nuova e al contempo prorompente e lo sguardo  sicuro e deciso con cui i suoi occhi vitrei mi penetravano  non mi lasciava altre alternative: ero ormai vittima, prigioniero della sua ragnatela tessuta di seduzione. Madame Olympia era consapevole dell’effetto che provocava su noi uomini e la serie di lunghi, profondi ed interminabili sguardi bramanti che la avvolsero le fornirono una chiara ed evidente conferma. Fattasi ormai l’ora di tornare, mentre mi alzavo per salutare la mia compagnia abituale,  il suo sguardo magnetico, seppur restando sempre distante, si unì al mio e ne fui rapito. Pensai di offrirle da bere prima di uscire e così, indossato il pastrano e il cappello, la scena che ammirai con la coda dell’occhio mentre mi dirigevo verso l’uscita fu quella del garzone che le portava un bicchiere di buon vino rosso. ‹‹ Merci, monsieur Manet ›› - udii una voce femminile composta e delicata alle mie spalle mentre attendevo che la carrozza partisse - ‹‹ la ringrazio per l’ottimo vino, lei come dimostra nelle sue opere, ha davvero buon gusto ›› - aggiunse la donna con un fare tipicamente civettuolo e malizioso. ‹‹ Sono contento che le sia piaciuto Madame Dùrbois, il cardinal Richelieu sarebbe stato fiero di lei! ›› - le risposi con tono scherzoso. Rivolgendo gli occhi al cielo mi accorsi che piccole gocce iniziavano a posarsi sulla strada. ‹‹ Posso avere il piacere di accompagnarla alla sua dimora, Madame? Credo stia per mettersi piovere e sebbene trovo che Parigi sia più bella sotto la pioggia non voglio che troppa bellezza le causi un malanno. ››. Mi sorrise, e presto salì e si accomodò nella carrozza. Il rumore della pioggia che, placida, si schiantava al suolo unito allo calpestìo ininterrotto degli zoccoli che battevano sul terreno non ci impedirono una lieta conversazione. Charlene era una donna amabile e brillante, risoluta e capace di discorrere abilmente in diversi ambiti in particolare quello letterario. Mi confessò presto il suo amore per l’arte italiana, che aveva avuto modo di ammirare a Firenze durante un breve ritiro, in particolar modo per la bellezza velata ma al contempo ricercata della “Venere di Urbino” di Tiziano che era stata anche oggetto dei miei studi e delle mie attenzioni. Dovetti riconoscerlo a me stesso: ero ammaliato da quella donna così libera la cui  bellezza era la sua arma più efficace; non volevo che se ne andasse, volevo averla mia per quella notte, volevo che fosse la mia musa, la mia ispirazione. ‹‹ Lei, mi permetta, mi ricorda molto la Venere di Urbino, tuttavia è mio intento rappresentare nuovi canoni, nuovi soggetti e trovo irresistibile l’idea di poterla avere come mia modella per la realizzazione del mio prossimo dipinto. ››. Penso si sentì onorata di questo, e tutto il groviglio di passioni in districabili che ci unì quella notte culminò al mattino quando, distesa sullo scomposto letto che ci aveva visti complici, vestita della sola luce che la faceva risplendere come una dea, assunse la postura della Venere di Tiziano e posò per me. Fu mia, la mia unica musa, come avevo desiderato.  Passarono diversi mesi e dell’avventura con Olympia non rimase che un indelebile ricordo. Decisi più tardi, ormai sobrio dal suo incantesimo, di aggiungere altri elementi al quadro. Quei particolari avrebbero distinto “Olympia” da quella che era la vera Charlene Dùbois; il gatto nero ai piedi del letto rappresentava la sua essenza: una donna che tutti bramavano ma che era uno spirito randagio che poteva essere di tutti ma non apparteneva a nessuno,  il bouquet variopinto è un gentile omaggio alla sua intelligenza e raffinatezza ed infine, il laccio annodato al suo collo è simbolo che è stata mia, la mia donna, la mia musa anche per una notte sola.


Cher Monsieur Louis Leroy,
 si risparmi le sue critiche: questa è la vera storia dell’Olympia.

Edouard Manet.



Di Arianna Rubino.  

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